... dal "Manifesto per Sinistra Ecologia Libertà" ottobre 2010.
Il Novecento è finito. La contesa generale che ne ha scandito il calendario storico è stata quella tra
Capitale e lavoro: sterminate plebi hanno fatto il proprio ingresso sulla scena pubblica, si sono date
la forma e la cultura di un proletariato maturo, hanno plasmato la vita e lo stile delle nostre
democrazie, hanno rotto il gioco secolare dello schiavismo e del colonialismo. In quella lotta aspra
e spesso sanguinosa sul nesso che lega lavoro e libertà si sono stratificate le nuove culture della
modernità: l’utopismo e il riformismo dei nuovi movimenti di massa, il marxismo, il cristianesimo
sociale, il radicalismo liberal-democratico. Il Novecento è finito con la sconfitta del lavoro e la
vittoria del nuovo Capitale finanziario. Tra le sue macerie rischia di rimanere sepolta la speranza di
una società di “liberi ed eguali”, che pure illuminò l’intero secolo, mobilitando in forme inedite quelle
energie sociali e quelle passioni individuali che cambiarono il corso della storia. La sinistra
novecentesca è stata la proiezione sulla scena pubblica di una planetaria spinta di emancipazione
sociale e di liberazione umana. Nell’esperienza storica degli Stati comunisti quella spinta è stata
invece soffocata e capovolta, e all’annuncio del “regno della libertà” si è sostituita la cortina di ferro
e la pedagogia dei gulag. Anche le socialdemocrazie, che hanno realizzato uno straordinario
compromesso tra i diritti del lavoro e il mercato capitalistico, sono state travolte dalla forza
rivoluzionaria che la nuova destra conservatrice mondiale traeva dalla crisi vorticosa dell’Est.
Tra la “storia è finita” e la “guerra infinita” si è giocata un’intera partita di egemonia e di dominio
degli assetti di potere mondiale. Il potere ha tramutato la propaganda in pubblicità, ha reinventato
le forme dell’immaginario di massa, ha riplasmato i desideri collettivi, ha covato le “uova di
serpente” di una nuova antropologia, consumista fino all’auto-cannibalismo e individualisticamente
nevrotica: non l’egoismo maturo di marxiana memoria, ma un egoismo dissipativo e cieco, capace
di trasmutare la libertà in una coazione infinita all’acquisizione di status symbol. L’individuo,
maschio e occidentale, compratore e venditore è il protagonista del mondo-market postnovecentesco.
Un mondo soffocato dai gas serra, assediato dal cemento, avvelenato,
desertificato, in piena crisi entropica. Il liberismo è stato ed è la narrazione “naturale” della
vocazione alla libertà predatoria, e la sinistra si è data come compito quello di temperare il calore
incandescente dell’umanità subordinata all’economia e dell’economia subordinata alla finanza.
Anche la politica è mercato, mercato elettorale. Dimensione pubblica del totalitarismo del privato.
Discorso pubblico sulla fine del primato del pubblico. Una modernità virtuale e veloce, incapace
tuttavia di fare i conti con le proprie ascendenze arcaiche: in particolare gli effetti perversi del
patriarcato in crisi e i suoi colpi di coda e il riproporsi del maschile come primato, che intende
sussumere il “femminile” come corredo e cornice, come allusione o “quota rosa”, senza mai
mettere in crisi le forme del politico e una architettura istituzionale che è escludente. Il regresso a
forme del diritto che evadono dai doveri dell’universalismo e riscoprono il fascino di una
legittimazione legata alla stirpe, al sangue e alla terra. La criminalizzazione dei poveri, nelle forme
di uno “Stato penale sovrannazionale” che usa i migranti come regolatore del costo del lavoro
globale e come capro espiatorio di qualsivoglia psicosi sociale causata da qualsivoglia crisi.
L’espulsione delle giovani generazioni dalla costruzione di futuro, in quanto la precarietà diviene un
tema unificante l’intero tempo di vita, dal mercato dei lavori atipici alle devastanti solitudini
metropolitane.
C’è un dolore incontenibile nelle forme antiche e nuove della “questione sociale”, nella geografia
dei lavori frammentati e orfani di tutela, nelle stratificazioni del non lavoro, nello smottamento dei
ceti medi verso le sabbie mobili dell’incertezza e dell’impoverimento, nella fatica di dare
rappresentazione pubblica e valore politico a ciascuna di queste esperienze di vita dimezzata, di
vita appesa, di vita a rischio. C’è un dolore persino straziante nello sfibramento della democrazia e
delle sue istituzioni, nella crisi del costituzionalismo democratico, e qui in Italia nel violento
precipitare in un “vuoto di democrazia” colmato dalla videocrazia, dalla censura di Stato, da poteri
opachi (e talvolta eversivi) che si auto-legittimano nei modi di un moderno populismo reazionario.
C’è un dolore anche inedito nella percezione della dissipazione irreparabile di vita e civiltà che si
consuma nell’oltraggio alla biodiversità e nell’aggressione mercificante alla natura. Qui c’è il vuoto
drammatico di sinistra. Qui c’è per intero il senso e il bisogno della sinistra. Non la sinistra delle
nostre biografie intellettuali, di tutte le nostre scissioni, del cumulo di torti e di ragioni che ciascuno
di noi si porta addosso. La sinistra che raccoglie e moltiplica domande di libertà e di eguaglianza
oggi più che mai soffocate e manipolate. La sinistra che ha bisogno di un popolo, il popolo ha
bisogno di una sinistra nuova, dell’eguaglianza, non dogmatica, libera, plurale e unitaria. Ecco: noi
vogliamo aprire il cantiere, non vogliamo chiuderlo. Vogliamo riaprire la partita, prima ancora che
aprire un partito. Vogliamo farlo in un percorso nuovo, in cui i luoghi che costruiremo non hanno la
presunzione di essere autosufficienti e definitivi. Vogliamo un soggetto politico, ecologista e
libertario, proprio per costruire un’alternativa al moderno capitalismo, che ci metta in cammino, che
ci aiuti a incontrare tante e tanti che come noi, ma diversamente da noi, cercano il vocabolario
della sinistra di un secolo nuovo.
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